Nell’estate del 1962, mentre tutti ballavano sulle spiagge d’Italia al ritmo di “Quando quando quando”, i tifosi interisti s’interrogavano perplessi sotto gli ombrelloni e si chiedevano se l’avvento del Mago Herrera, giunto due anni prima, fosse davvero la medicina adatta per guarire il popolo nerazzurro, ora umiliato dallo scudetto appena conquistato dal Milan del Paròn Rocco. Il presidentissimo Angelo Moratti spendeva e spandeva, ma i risultati non si vedevano. Don Helenio era sbarcato nel nostro campionato con la presunzione di imporre il proprio gioco, di giocare all’attacco, di fare un calcio spettacolare, e così alla gente era stato venduto il prodotto, neanche fosse una scatola di biscotti, salvo poi rendersi conto che quello stile di gioco non era in linea con la storia italiana.
Le critiche si fecero sempre più frequenti. Il Mago, indispettito, nella tarda primavera, prese congedo dalla squadra e andò a guidare la Spagna al Mondiale in Cile. Pareva proprio che fosse il passo d’addio. Moratti, con saggezza, si cautelò e mise sotto contratto Edmondo Fabbri, detto Mondino, che aveva fatto meraviglia alla guida del Mantova. Poi accadde che Herrera, uomo tutt’altro che insensibile al suono delle monetine (e all’Inter ne guadagnava parecchie, premi compresi), decise di rientrare alla base e si mise a progettare la stagione 1962-63. Da un anno in quell’Inter zeppa di campioni ce n’era uno che brillava più degli altri: Luisito Suarez, già Pallone d’Oro nel 1960, che con il Mago aveva lavorato (e vinto) a Barcellona.
Dopo un inizio di campionato piuttosto balbettante, e visto che le critiche si facevano sempre più pesanti, fu proprio Suarez, che con Herrera aveva un rapporto privilegiato, a prendere da parte l’allenatore e a rappresentargli le sue perplessità. Il discorso, in sostanza, fu il seguente: “Mister, in Italia si gioca in modo differente rispetto alla Spagna. Bisogna adeguarsi. Qui i difensori picchiano, sono duri. Proviamo a modificare l’assetto della squadra”. Il Mago riflettè su queste considerazioni e il giorno in cui anche il presidente Moratti gliele spiattellò identiche durante un duro confronto prese la decisione: “Basta con il calcio d’attacco, d’ora in poi faremo difesa e contropiede. Il catenaccio sarà il nostro stile”. Suarez, che di quella squadra era il cervello e l’elemento d’equilibrio, venne spostato dall’abituale posizione di mezzala avanzata a quella di regista, quasi davanti alla difesa. Il suo compito era quello di ricevere il passaggio dei difensori in fase d’impostazione e di illuminare la scena con lanci improvvisi di quaranta metri, di rara bellezza e precisione, che pescavano gli attaccanti Jair e Mazzola lanciati verso la porta avversaria. Lo schema era piuttosto semplice, e persino banale: con tre tocchi si era dall’altra parte del campo, non si gigioneggiava in dribbling, non si perdeva tempo in inutili fraseggi. Suarez lanciava, Jair scattava e crossava, e Mazzola la buttava dentro.
Al termine del campionato 1962-63 l’Inter conquistò lo scudetto e lì cominciò una storia che divenne un’epopea. La Coppa dei Campioni del 1964 contro il Real Madrid di Di Stefano, quelle del 1965 contro il Benfica di Eusebio, le due coppe intercontinentali contro l’Independiente, la delusione per la finale persa contro il Celtic, i tre scudetti conquistati. E Luisito Suarez sempre in mezzo al campo a dirigere le operazioni con la sapienza di un architetto e la fantasia di un trequartista. Non ci sarebbe stata la Grande Inter senza questo autentico genio del centrocampo che sapeva trasformare, in un amen, l’azione difensiva in manovra d’attacco. Gli basta un lampo, un’idea e tutto cambiava prospettiva. Sapeva vedere pertugi che altri nemmeno immaginavano. Pur avendo un ottimo dribbling non ne abusava, sapendo che il pallone non poteva essere perso da chi aveva il compito di dominarlo. Aveva l’assist nel dna, così come il suo compagno di squadra Mariolino Corso il cui nome, tutte le estati, finiva nella lista dei partenti compilata da Herrera e puntualmente veniva cancellato dal presidente Moratti che per il Sinistro di Dio aveva una specie di venerazione, o qualcosa di più. Erano proprio Suarez e Corso i motori di quel gruppo che Herrera sapeva tenere in pugno con il carisma e con le sue bizzarre invenzioni retoriche che ne fecero uno dei primi allenatori-motivatori della storia del calcio: tacalabala era il suo grido nello spogliatoio, e alle pareti il Mago aveva attaccati decine e decine di bigliettini con il solo scopo di spronare i suoi ragazzi a dare l’anima in campo. Suarez, che era di una categoria superiore come Corso, quei bigliettini probabilmente nemmeno li leggeva: non ne aveva bisogno. Il suo calcio era arte, non aveva bisogno di motivazioni per produrlo. Gli veniva naturale stoppare il pallone, alzare la testa, intuire lo scatto di Jair o di Mazzola, e recapitargli il pallone con una fiondata secca che era una sentenza. Luisito seppe elevare all’assoluto la qualità più difficile: la semplicità.
(da Gazzetta.it, di Andrea Schianchi)