Lucavialli, scritto, pensato e vissuto così: tutto d’un fiato, come una corsa che si fa da ragazzini, fino all’ultima folata di vento, fino all’ultimo minuto dei suoi cinquantotto anni, maledizione, troppo presto se n’è andato. Luca Vialli, il nostro amico fragile che sei anni fa – era il 2017 – raccontò che la malattia gli si era seduta accanto, a fare ombra ai suoi giorni, a oscurarne qualsiasi ipotesi di futuro. Tumore al pancreas. L’aveva detto, così, senza infingimenti, condividendo l’ansia e le paure, con un sorriso triste che nella piega amara della bocca custodiva una sentenza. Qualche giorno fa si era sfilato dal suo ruolo di capo delegazione della Nazionale azzurra, con quell’eleganza che è sempre stata la sua cifra esistenziale, senza far rumore, sfumando in una dissolvenza che aveva il contorno di un congedo.
Aveva diciotto anni quando comparve per la prima volta sulla scena. Vestiva la maglia grigiorossa della Cremonese, teneva i capelli ricci e folti, l’aria sbarazzina, di chi è cresciuto bene e lo sa. Quinto e ultimo di cinque figli, Mila, Nino, Marco e Maffo, venuto su in una famiglia benestante: il papà Gianfranco ha un’azienda che produce prefabbricati – a Villa Affaitati di Belgioioso, a Grumello, un tiro di schioppo dalla città. Giocava a calcio con la stessa leggerezza con cui un cane scopre un prato inaspettato: scodinzolando di gioia, rincorrendo il pallone e qualcosa che somiglia alla felicità. Ala, prima destra, poi sinistra, infine centravanti. Attaccante totale, pezzo forte del repertorio: l’acrobazia. Per la penna di Gianni Brera diventa subito “Stradivialli”: crasi del liutaio cremonese Antonio Stradivari e di Luca Vialli, appunto. Trecentoventicinque presenze in A, 123 reti; 13 presenze in B, 23 gol; 58 presenze e 21 gol in Premier League. Totale di tutti i campionati e le coppe: 653 partite ufficiali, 259 gol.
Carriera quasi ventennale, dal 1980 al 1999. In Italia il Vialli migliore. Otto anni alla Samp, quattro alla Juve. Gli anni 80 di qua, i 90 di là. La giovinezza, la maturità. Alla Samp ride perché si diverte, alla Juve ride perché vince. La sua Samp: la meglio gioventù in cachemire, squadra di una leggerezza irripetibile. La coppia d’oro del nostro calcio: Vialli e Mancini, i pupilli del presidente Paolo Mantovani. I «Gemelli del Gol» che nel 1991 trascinano la Samp a uno storico scudetto. Luca & Roby sono i due talenti, due predestinati capaci di riassumere genio e tecnica, potenza e fantasia. La chiamano la «Sampdoro». Uno (Mancini) dipinge calcio, l’altro (Vialli) segna caterve di gol. I due amici sono inseparabili anche fuori dal campo. La coppia sboccia quando sulla panchina blucerchiata arriva Vujadin Boskov, uomo di mondo, saggio, colto, abile a capire che tutto andrà per il verso giusto se saprà creare le condizioni necessarie perché il talento dei due amici abbia libertà di esprimersi fino in fondo.
Ha raccontato il portiere di quella Sampdoria, Pagliuca: “Boskov disegnava gli schemi sulla lavagna, poi Luca prendeva il gessetto e faceva delle correzioni. Allora Boskov riprendeva il gessetto e cambiava, quindi era il turno di Luca. Ridevamo tutti e in verità c’era grande rispetto dei ruoli”. Sono anni di bellezza seminata, di scherzi (Vialli è un maestro in questo senso) e notti che finiscono all’alba. Genova è il loro regno, la loro culla, la loro tana. Con altri compagni di squadra i due fondano il club dei “Sette nani”: Vialli è Pisolo, Mancini è Cucciolo. Insieme convinceranno i compagni – da Vierchowod a Pagliuca a Lombardo – a rimanere alla Sampdoria, nonostante ci siano gli squadroni della Serie A ad offrire cifre esorbitanti. Hanno un solo obiettivo: scrivere la storia. Ci riescono. Luca resterà alla Sampdoria otto anni, poi andrà alla Juventus.
La Juve, dunque. A 28 anni – corteggiato a lungo da Gianni Agnelli – dopo la finale di Coppa dei Campioni persa col Barcellona. Di quella Juve Vialli diventa subito leader. Scudetto, Coppa dei Campioni, Coppa Uefa, Coppa Italia, Supercoppa italiana. Il Trap all’inizio lo prova persino mezzala, no, lasciamo perdere. La notte che vale una vita è quella della conquista della Champions League, contro l’Ajax (foto Getty). Vialli è quello ebbro di gioia, con una bandana legata in fronte, mentre alza la coppa e fa baldoria. Dopo la Juve è l’ora del Chelsea. Uno dei primi, Vialli, a fare l’emigrante di lusso in Inghilterra, esportando il Made in Italy al Chelsea. Prima coach-player, poi solo allenatore. Bacheca a cui dare lustro: una Coppa d’Inghilterra, una Coppa di Lega inglese, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa Uefa. Curiosità: è l’unico italiano ad avere vinto le tre coppe di allora con tre squadre differenti. Champions con la Juve, Coppa Uefa con la Sampdoria, Coppa Coppe con il Chelsea. Poi – chiusa la parentesi a Stamford Bridge con qualche dissapore – il percorso in panchina che inaspettatamente si ferma (farà solo un tentativo con il Watford all’alba del Duemila), la scelta di fare di Londra la propria casa, l’inizio di un amore: quello con l’australiana Cathryn White Cooper sposata nel 2003, insieme hanno avuto due figlie.
Il Vialli più recente è l’opinionista televisivo, sempre pacato, puntuale nei commenti senza peccare di piaggeria, ironico come lo sapeva essere lui. Con una carezza, mai con le unghie esibite. Negli ultimi tempi il suo nome è stato accostato alla Sampdoria, alla sua Samp, da rilevare a capo di qualche cordata. Più che altro una suggestione sentimentale, che mai ha trovato aderenza nei fatti. Era già impegnato da tempo come team manager dell’Italia, convocato dal suo amico di una vita, Roberto Mancini. E anche lì – sentendosi a casa – Vialli ha svolto il suo compito con professionalità, soffrendo, lottando contro una malattia che l’aveva asciugato, scontornato in una debolezza inedita, per lui così forte, così plastico in ogni posa, così Cuor di Leone. Nell’ultima immagine che ci piace ricordare di lui se ne sta abbracciato al Mancio, a Wembley (foto LaPresse), lì dove l’Italia ha appena vinto l’Europeo: non si stanno solo abbracciando l’un l’altro, stanno stringendo forte il passato, gli anni felici e spettinati, l’età più bella che li aveva visti – insieme – rincorrere un pallone e se Mancini stringe a sé l’amico, Vialli fa qualcosa di più commovente e disperato: stringe a sé la vita, quella poca che ancora gli resta da vivere.